Alessandra di Francesco | STICH AND PIERCE

In occasione della undicesima edizione della giornata del contemporaneo la Galleria Sinopia presenta STICH AND PIERCE gli ultimi lavori di Alessandra Di Francesco.

Testo critico Paolo Balmas

Galleria Sinopia di Raffaella Lupi
presenta

Alessandra di Francesco
STICH AND PIERCE
installazione

Vernissage
10 ottobre 2015 ore 18.00

In occasione della undicesima edizione della giornata del contemporaneo la Galleria Sinopia presenta STICH AND PIERCE gli ultimi lavori di Alessandra Di Francesco.

Il filo, la trama, la tessitura, la ricucitura, il nodo insieme alla pittura, sono gli ingredienti dell’installazione pensata per la vetrina della Galleria di Raffaella Lupi.

Le opere di Alessandra Di Francesco racchiudono la sapienza e la tecnica del restauro, il virtuosismo della pittura, la potenza della comunicazione e delle connessioni umane. Si tratta di racconti visivi di sollecitazioni mentali che fuoriescono dalle trame del tessuto e allo stesso tempo ne vengono imprigionati.

La scelta di affidare ad Alessandra Di Francesco un intervento in vetrina, fa parte della vocazione multidisciplinare della Galleria che ricerca nella convivenza tra Arti e Saperi, tra Arti Preziose e Arti Applicate, tra Antiquariato e Contemporaneo, un nuovo sentimento del vivere. La Sinopia si offre in questo caso come Dimora Artistica, luogo di accoglienza e di sperimentazione, territorio privilegiato di incontro dove nuovo e antico si contaminano generando un effetto senza tempo.

“In arte, molto spesso, quel che conta davvero non è ciò che si vede, ma ciò che si intravede, non sono le cose che si conoscono, ma quelle che si ri-conoscono, pur non avendole mai incontrate prima. La stessa bellezza di un’opera, poi, quasi sempre,  non ci interessa solo per le qualità formali che vi possiamo individuare, ma anche e soprattutto per gli universi di felicità o gli abissi di dolore su cui esse sembrano  affacciarsi, sollevando ogni volta un velo  inatteso.

Detto in termini più vicini all’immaginario popolare ciò che inchioda il pittore dinnanzi alla tela, lo scrittore sulla pagina bianca, o il musicista alla tastiera del suo strumento, non sono le infinite combinazioni e ricombinazioni di suoni, colori e parole che egli incamera e rielabora giorno dopo giorno, ma le ombre che nel far questo egli insegue, le tensioni che lo guidano dal profondo del suo stesso divenire e gli fanno dire sì o no dinnanzi ad ogni nuovo azzardo e ad ogni inedita trasgressione. Non il contenuto, dunque, ma il percorso, è il vero oggetto della creazione, non il risultato ma il processo. Un “divenire” che non si esaurisce con il compimento del lavoro, ma più semplicemente si  stabilizza, si palesa come un’ ulteriore emissione di energia a disposizione e finalmente  passa la mano coinvolgendo anche gli altri…tutti gli altri senza più limiti di tempo o di luogo.

In quest’ottica anche le tradizionali distinzioni tra  sapere pratico e  ispirazione, tra tecnica e poetica, perdono gran parte della loro evidenza. Se l’autore dell’opera non è più un ipotetico soggetto universale che ci parla attraverso la persona dell’artista, ma quella persona stessa, immersa nell’avventura del quotidiano, con tutte le risorse e le riserve della sua umanità, diviene davvero difficile stabilire il confine tra una decisione che riguarda i concreti strumenti da usare  ed una scelta  relativa agli equilibri complessivi dell’insieme,  quasi impossibile  distinguere tra il rispetto di una procedura di supporto all’esecuzione definitiva e il valore di auspicio rituale che essa potrebbe assumere nel preparare l’apparizione di un’immagine e senza meno problematico, al limite della contraddizione,   opporre l’obbligo di essere sempre e solo  se stessi al riemergere spontaneo, in questa o quella occasione, del proprio museo personale di autori e generi preferiti .

Alessandra di Francesco, pittrice da sempre e per sempre, in virtù della  sua lunga attività di restauratrice, ha imparato a convivere con  queste verità  in una forma in qualche modo specularmente raddoppiata  e passibile di crescere all’infinito su se stessa.

Ripensando a quante volte nel pulire un affresco, nell’osservare  la radiografia di una tela, o nell’analizzare un pigmento, ha  provato l’emozione intima e irrepetibile di scoprire un pentimento, ritrovare una cromia originaria, o rintracciare l’andamento di una sinopia, ha da qualche tempo deciso di  far convergere la sua ricerca proprio su questo incantesimo nascosto nelle pieghe di un mestiere positivo e malinconico ad un tempo e per far ciò ha scelto due polarità attorno alle quali far ruotare le sue esplorazioni: quella dell’asportare e quella del reintegrare.

Come ci mostrano le opere della sua produzione più recente  asportare può significare non solo toglier via un’incrostazione o una ridipintura, come avviene di continuo nel trattare un dipinto del passato, ma anche tagliare una porzione della propria stessa tela alludendo a ciò che chissà quanti artisti del nostro tempo non hanno, o non hanno mai avuto, il coraggio di tradurre in immagine, o ancora, con una metafora un po’ più azzardata, ma non meno efficace, può significare bucarla come un tempo si faceva con  i cartoni  preparati per lo spolvero e servirsi del foro così creato, come di una postazione privilegiata, un luogo da cui osservare lo spettacolo del mondo reale finalmente incorniciato  da quello dell’arte,  di un’arte però non più banalmente intesa come ineffabile virtualità, bensì empiricamente sentita  come modalità  dell’agire, come costruzione vivente tanto più rivelatrice quanto più essa stessa decostruita.

Allo stesso modo reintegrare può significare non soltanto ripristinare la trama di un supporto o ridare brillantezza ad un’area limitata di colore, ma anche riprodurre ciò che è venuto a mancare secondo la logica stessa con cui a suo tempo fu fatto, non certo per sovrapporlo a ciò che resta, secondo una pratica giustamente abborrita dalla moderna teoria del restauro,  ma per imbastire un gioco autonomo di forme, decorazioni, icone ed emblemi da far vivere separatamente come naufraghi giunti a noi dal passato ancora carichi di energie e potenzialità, ancora dotati di attrattive che non potranno più essere riassorbite da una  Storia dell’Occidente ormai  chiusa per fallimento. Frammenti di valore che proprio per questo potranno brillare ancora come stralunate supernove nell’universo ipertrofico e monotono della comunicazione mediale. Un universo che non è più soltanto strumento del potere e del denaro ma che proprio per esserlo stato troppo e troppo a lungo comincia oggi ad avere un proprio inconscio ed una propria coscienza nascosti sempre più difficili da sondare ma anche sempre più ricchi di suggestioni, di strane bellezze  di cui riappropriarsi sviluppandole con pazienza e maestria.”

Paolo Balmas